Il Testamento del Liotru
Nel maggio del 1862 tutto era pronto per abbattere il celebre monumento: a farlo cadere in disgrazia motivi politici e concreti. La poesia dà un interessante spaccato degli albori dell'Unità nazionale.
Populu di Catania
populu di talentu
fammi di tistimniu
ca fazzu tistamentu
"Giornale di Catania, 24 maggio 1862: "Le opere
pubbliche comunali progrediscono, il piano del Duomo è in corso di abbellimento
(...) e allora? Che aspettiamo a piazzarlo fuori Porta Garibaldi, in modo che il
Duomo resti un vero salone da ballo? ".
Quattro giorni dopo il Cristoadoro annotava nella sua Cronica:"Alle ore 23 si
comincia nel Piano ad alzarsi il pontono per levarsi l'Elefante e la Fontana
pubblica". Ma la rimozione del millenario pachiderma non era scempiaggine che
si potesse commettere senza incorrere nelle ire popolari: " Vedendo che
-continua il Cristoadoro- s'era già posta la corda, attaccata alla balaustra
della Cattedrale, per scuotersi l'obelisco (che sormonta il Liotru, ndr)
d'un subito esce dalla folla il Capitano, don Bonavetura Gravina, il quale
sfodera la sciabola ed in nome del popolo intima agli operai di desistere. Si
unisce allo stesso una grande calca di popolo e sale la Casa Comunale: se ne
parla al Sindaco (...) il Gravina con la storia e la guida di Catania in mano fa
conoscere il pregio di quella fonte e di quell'obelisco (...) La sera fuvvi
consiglio e si deliberò assolutamente di non toccare l'Elefante, anzi palizzarsi
bene". Ben per loro:Il popolo era risolto di gettare i 60 consiglieri dalla
finestra".
Il che è vero in parte, perché "il popolo" era diviso sulla questione, come mostrano i disordini del 3 giugno, che seguirono alla decisione di non toccare l'Elefante.
Cosa divideva l'opinione pubblica sì da suscitare disordini? Il 6 giugno 1861 il furore popolare abbatteva le ultime vestigia borboniche. Si mozzavano le teste delle statue dei vari re borboni. Al loro posto si proponeva di erigere monumenti agli illustri patrioti italiani. Ora, durante la dominazione borbonica, nello stemma della Città, sul dorso dell'Elefante, era stata posta la civetta borbonica. Quanto bastava perchè alcuni vedessero nell'Elefante di Piazza Duomo un vestigio borbonico.
Ma c'erano altri motivi più concreti per sbarazzarsi dell'Elefante: i commercianti e gli artigiani che avevano la bottega in Piazza Duomo, ai quali avrebbe fatto comodo disporre dell'ampia piazza sgombra dell'Elefante e piazzare al suo posto sedie e tavolini. La "vendetta" dell'Elefante non si fa attendere: per mano del Guardo, il noto poeta dialettale "scrive" un testamento che gli dà modo di mettere in piazza i panni sporchi di quanti si erano adoperati per "livarimi da lu miu anticu postu". da qui pettegolezzi e cattiverie sui personaggi più in vista del tempo: G. Gravina, sindaco (il primo) di Catania, il Marchese di S.Giuliano, assessore ai LL.PP, nel Consiglio Civico; il Marchese di Casalotto, deputato nazionale, ed altri personaggi minori della vita cittadina, che l'Elefante istituisce eredi di "quantu è in mio possesso:scagghi fatti a corna, proboscide, coda, palle...".
Conosciamo questi "eredi" attraverso la Cronaca del Cristoadoro, il quale riporta il testo integrale del "Testamento del Liotro" (80 quartine, aggiungendo delle note esplicative che, corredate nomi,cognomi ed indirizzo precisano con fatti e circostanze quelle che nella poesia sono generiche allusioni. Alla satira del Guardo così si unisce l'acrimonia popolana del filoborbonico, il Cristoadoro, che non sa rassegnarsi al nuovo regime e riduce allo stesso denominatore personaggi come il Gravina che"a proprie spese, o meglio, con il denaro destinato a lui come sindaco, diede avvio alla sistemazione della Piazza della Statua" come si legge in "Piano regolatore della Città di Catania". A sentire il Cristoadoro, invece, sarebbe stato un "celebre ladro e birbantone che, a spese della Casa comunale si è arricchito". Per tacere di un altro personaggio eminente, che per il Cristoadoro sarebbe stato solo "Cornuto".
Del "Testamento" riportiamo le due quartine relative al sarto con l'annessa "nota" del Cristoadoro.
"A du sartu, immagine di una mezza botte /ci lasciu li mei peti ca l'amu chi di tutti
Tintau puri chist'autru/ di livarimi di ca/esposto ai fulmini ca cadunu in città/Nè importa se è debuli e asino di natura/in tempi di piena natunu /... non lu posso dire".
Così spiega il Cristoadoro: "Questo sarto abita dietro l'Elefante, sposò un tal partito per fare che la bottega prendesse maggiore lume, non solo, ma che non scandalizzasse le sue antipatiche e smorfiose figlie quella vista di bertolaccia pendente in mezzo alle cosce dell'Elefante che quantunque di pietra, sono cose che stuzzicano l'appetito ad essere viste e palpeggiate per la loro smisurata grandezza".
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